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Marzo 2016

Un nuovo confessionale

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La ristrutturazione della nostra Chiesa, ha portato a rimuovere ed eliminare i vecchi confessionali ammalorati e non più utilizzabili. Ora abbiamo un “nuovo confessionale”..

Lascio alle parole di Papa Francesco richiamare il valore del Sacramento della Riconciliazione o Confessione.

Io richiedo l’importanza del confessionale in Chiesa:

  1. È un “oggetto di memoria”: ci ricorda che siamo peccatori e soprattutto che siamo perdonati.
  2. È un “oggetto di discrezione”: possiamo certamente confessarci nei banchi e/o ovunque ma “un luogo riservato” rispetta l’intimo della persona e il suo personale “dialogo con il mistero del Padre”.
  3. È un “Oggetto di amore”: è il luogo dove ciascun uomo o donna può sentirsi: amato, perdonato, abbracciato dalla tenerezza del Padre

 

Dal testo: “Il nome di Dio è Misericordia” di Papa Francesco.

IL DONO DELLA CONFESSIONE: Perché è importante confessarsi? Lei è stato il primo Papa a farlo pubblicamente, durante le liturgie penitenziali nel tempo di Quaresima, in San Pietro… Ma non basterebbe, in fondo, pentirsi e chiedere perdono da soli, vedersela da soli con Dio?

È Gesù ad aver detto ai suoi apostoli: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Vangelo di Giovanni 20, 23). Dunque, gli apostoli e i loro successori – i vescovi e i sacerdoti loro collaboratori – diventano strumenti della misericordia di Dio. Agiscono in persona Christi. È molto bello questo. Ha un profondo significato, perché noi siamo esseri sociali. Se tu non sei capace di parlare dei tuoi sbagli con il fratello, sta’ sicuro che non sei capace di parlarne neanche con Dio e così finisci per confessarti con lo specchio, davanti a te stesso. Siamo esseri sociali e il perdono ha anche un risvolto sociale, perché anche l’umanità, i miei fratelli e sorelle, la società, vengono ferite dal mio peccato. Confessarsi davanti a un sacerdote è un modo per mettere la mia vita nelle mani e nel cuore di un altro, che in quel momento agisce in nome e per conto di Gesù. È un modo per essere concreti e autentici: stare di fronte alla realtà guardando un’altra persona e non se stessi riflessi in uno specchio. Sant’Ignazio, prima di cambiar vita e di comprendere che doveva fare il soldato di Cristo, aveva combattuto nella battaglia di Pamplona. Militava nell’esercito del re di Spagna, Carlo V d’Asburgo, e fronteggiava l’esercito francese. Venne ferito gravemente, credeva di morire. Non c’era un prete in quel momento nel campo di battaglia. E allora lui chiamò un suo commilitone, si confessò con lui, disse a lui i suoi peccati. Il compagno non poteva assolverlo, era un laico, ma l’esigenza di essere di fronte a un altro, al momento della confessione, era così sentita che decise di fare in quel modo. È una bella lezione. È vero che io posso parlare con il Signore, chiedere subito perdono a Lui, implorarlo. E il Signore perdona, subito. Ma è importante che io vada al confessionale, che metta me stesso di fronte a un sacerdote che impersona Gesù, che mi inginocchi di fronte alla Madre Chiesa chiamata a dispensare la misericordia di Dio. C’è un’oggettività in questo gesto, nel mio genuflettermi di fronte al prete, che in quel momento è il tramite della grazia che mi raggiunge e mi guarisce. Mi ha sempre commosso quel gesto della tradizione delle Chiese orientali, quando il confessore accoglie il penitente mettendogli la stola sulla testa e un braccio intorno alla spalla, come in un abbraccio. È una rappresentazione plastica dell’accoglienza e della misericordia. Ricordiamo che non siamo lì anzitutto per essere giudicati. È vero che c’è un giudizio nella confessione, ma c’è qualcosa di più grande del giudizio che entra in gioco. È lo stare di fronte a un altro che agisce in persona Christi per accoglierti e perdonarti. È l’incontro con la misericordia.

 

Che cosa può dire della sua esperienza di confessore? Glielo chiedo perché sembra un’esperienza che ha segnato profondamente la sua vita. Nella prima messa celebrata con i fedeli dopo l’elezione, nella parrocchia di Sant’Anna, il 17 marzo 2013, lei ha parlato di quell’uomo che diceva: «Eh, padre, io ne ho combinate di grosse…». E al quale lei aveva risposto: «Vai da Gesù, lui perdona e dimentica tutto». In quella stessa omelia ricordava che Dio mai si stanca di perdonare. Poco dopo, all’Angelus, ricordò un altro episodio, quello della vecchietta che le aveva detto confessandosi: senza la misericordia di Dio il mondo non esisterebbe.

Ricordo molto bene questo episodio rimasto impresso nella mia memoria. Mi pare di vederla ancora adesso. Era una donna anziana, piccolina, minuta, vestita tutta di nero, come si vede in alcuni paesi del Sud Italia, in Galizia, in Portogallo. Ero da poco diventato vescovo ausiliare di Buenos Aires e si stava svolgendo una grande messa per gli ammalati, in presenza della statua della Madonna di Fatima. Ero lì per confessare. Verso la fine della messa mi sono alzato perché dovevo andare via, avevo una cresima da amministrare. In quel momento è arrivata quella donna, anziana e umile. Mi sono rivolto a lei chiamandola abuela, cioè nonna, come si usa da noi in Argentina. «Nonna, lei vuole confessarsi?» «Sì», mi ha risposto. E io, che stavo per andarmene le ho detto: «Ma se lei non ha peccato…». Pronta e puntuale la sua risposta: «Tutti abbiamo peccati». «Ma forse il Signore non li perdona…» ho replicato io. E lei: «Il Signore perdona tutto». «Ma come lo sa, lei?» «Se il Signore non perdonasse tutto» è stata la sua risposta «il mondo non esisterebbe.» Un esempio della fede dei semplici, che hanno la scienza infusa, anche se non hanno mai studiato teologia. Durante quel primo Angelus, dissi, per farmi capire, che la mia risposta era stata: «Ma lei ha studiato alla Gregoriana!». In realtà, la vera risposta fu: «Ma lei ha studiato con Royo Marín!». Un riferimento al padre domenicano Antonio Royo Marín, autore di un famoso volume di teologia morale. Rimasi impressionato dalle parole di quella donna: senza la misericordia, senza il perdono di Dio, il mondo non esisterebbe, non potrebbe esistere. Come confessore, anche quando mi sono trovato davanti a una porta chiusa, ho sempre cercato una fessura, uno spiraglio, per schiudere quella porta e poter donare il perdono, la misericordia.

 

Lei una volta ha affermato che il confessionale non deve essere una “tintoria”. Che cosa significa? Che cosa intendeva dire?

Era un esempio, un’immagine per far capire l’ipocrisia di quanti credono che il peccato sia una macchia, soltanto una macchia, che basta andare in tintoria perché te la lavino a secco e tutto torni come prima. Come si porta a smacchiare una giacca o un vestito: si mette in lavatrice e via. Ma il peccato è più di una macchia. Il peccato è una ferita, va curata, medicata. Per questo ho usato quell’espressione: cercavo di far presente che andare a confessarsi non è come andare a portare il vestito in tintoria.

 

Cito un altro suo esempio. Che cosa significa che il confessionale non deve essere nemmeno una “sala di tortura”?

Quelle erano parole indirizzate piuttosto ai sacerdoti, ai confessori. E si riferiva al fatto che talvolta ci può essere in qualcuno un eccesso di curiosità, una curiosità un po’ malata. Una volta ho sentito di una donna, sposata da anni, che non si confessava più perché quando era una ragazza di 13 o 14 anni il confessore le aveva domandato dove metteva le mani quando dormiva. Ci può essere un eccesso di curiosità, in materia sessuale, soprattutto. Oppure un’insistenza nel far esplicitare particolari che non sono necessari. Colui che si confessa è bene che si vergogni del peccato: la vergogna è una grazia da chiedere, è un fattore buono, positivo, perché ci fa umili. Ma nel dialogo con il confessore bisogna poter essere ascoltati, non essere interrogati. Poi il confessore dice quello che ha da dire consigliando con delicatezza. Questo intendevo dire parlando di confessionali che non devono mai essere stanze di tortura.

 

Jorge Mario Bergoglio è stato un confessore severo o indulgente?

Ho sempre cercato di dedicare del tempo alle confessioni, anche da vescovo e da cardinale. Ora confesso di meno, ma mi capita di farlo ancora. A volte desidererei poter entrare in una chiesa e sedermi ancora in confessionale. Dunque, per rispondere alla domanda: io, quando ho confessato, ho sempre pensato a me stesso, ai miei peccati, al mio bisogno di misericordia e dunque ho cercato di perdonare molto.

 

Come si fa a riconoscersi peccatori? Che cosa direbbe a qualcuno che non si sente tale?

Gli consiglierei di chiedere questa grazia! Sì, perché anche riconoscersi peccatori è una grazia. È una grazia che ti viene donata. Senza la grazia, al massimo si può arrivare a dire: sono limitato, ho i miei limiti, questi sono i miei sbagli. Ma riconoscersi peccatori è un’altra cosa. Significa mettersi davanti a Dio, che è il nostro tutto, presentandogli noi stessi, cioè il nostro niente. Le nostre miserie, i nostri peccati. È davvero una grazia che si deve chiedere.

 

Don Luigi Giussani citava questo esempio traendolo dal romanzo di Bruce Marshall A ogni uomo un soldo. Il protagonista del libro, l’abate Gaston, doveva confessare un giovane soldato tedesco che i partigiani francesi stavano per condannare a morte. Il soldato aveva confessato la sua passione per le donne e le tante avventure amorose che aveva avuto. L’abate aveva spiegato che doveva pentirsi. E lui: «Come faccio a pentirmi? Era una cosa che mi piaceva, se ne avessi l’occasione lo farei anche adesso. Come faccio a pentirmi?». Allora all’abate Gaston, che voleva assolvere quel penitente ormai in punto di morte, era venuto un lampo di genio e aveva detto: «Ma a te rincresce che non ti rincresca?». E il giovane, spontaneamente, aveva risposto: «Sì, mi rincresce che non mi rincresca». Cioè mi spiace di non essere pentito. La fessura sulla porta che aveva permesso l’assoluzione…

È vero, è così. È un esempio che rappresenta bene i tentativi che Dio mette in atto per far breccia nel cuore dell’uomo, per trovare quello spiraglio che permetta l’azione della sua grazia. Lui non vuole che qualcuno si perda. La sua misericordia è infinitamente più grande del nostro peccato, la sua medicina è infinitamente più potente della malattia che deve curare in noi. C’è un prefazio della liturgia ambrosiana nel quale si legge: «Ti sei chinato sulle nostre ferite e ci hai guarito, donandoci una medicina più forte delle nostre piaghe, una misericordia più grande della nostra colpa. Così anche il peccato, in virtù del tuo invincibile amore, è servito a elevarci alla vita divina». Ripensando alla mia vita e alla mia esperienza, a quel 21 settembre 1953 quando Dio mi è venuto incontro riempiendomi di stupore, ho sempre detto che il Signore «nos primerea», cioè ci precede, ci anticipa. Credo che lo stesso si possa dire della sua misericordia divina, donata per sanare le nostre ferite, che ci anticipa. Dio ci attende, aspetta che gli concediamo soltanto quel minimo spiraglio per poter agire in noi, col suo perdono, con la sua grazia. Solo chi è stato toccato, accarezzato dalla tenerezza della misericordia, conosce veramente il Signore. Perciò ho ripetuto spesso che il luogo in cui avviene l’incontro con la misericordia di Gesù è il mio peccato. Quando si sperimenta l’abbraccio di misericordia, quando ci si lascia abbracciare, quando ci si commuove: allora la vita può cambiare, perché cerchiamo di rispondere a questo dono immenso e imprevisto, che agli occhi 14 umani può apparire perfino “ingiusto”, per quanto è sovrabbondante. Siamo di fronte a un Dio che conosce i nostri peccati, i nostri tradimenti, i nostri rinnegamenti, la nostra miseria. Eppure è lì che ci attende, per donarsi totalmente a noi, per risollevarci. Ripensando all’episodio citato nel romanzo di Marshall, io parto da un presupposto simile, che va nella stessa direzione. Non c’è soltanto quella massima giuridica sempre valida, secondo la quale in dubio pro reo, cioè nel dubbio si decida sempre in favore della persona che è sottoposta a giudizio. C’è anche l’importanza del gesto. Il solo fatto che una persona vada al confessionale, indica che c’è già un inizio di pentimento, anche se non è cosciente. Se non ci fosse stato un moto iniziale, la persona non sarebbe venuta. Il suo essere lì può testimoniare il desiderio di un cambiamento. La parola è importante, esplicita il gesto. Ma il gesto stesso è importante, e talvolta può valere di più la presenza impacciata e umile di un penitente che fa fatica a parlare, piuttosto che le tante parole di qualcuno che descrive il suo pentimento.

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